Carlo Magno e la moneta fantasma

"Né sacro, né romano, né un impero" scriveva sdegnosamente Voltaire, riferendosi alla realtà imperiale proclamata la notte di Natale dell'anno 800 d.C., quando il re dei Franchi Carlo Magno fu incoronato imperatore dei Romani. Il Sacro Romano Impero sfidava il tempo, visto che l'autorità imperiale in Occidente era sparita da un pezzo, lo spazio, considerata l'estensione territoriale non comparabile con l'illustre predecessore e, soprattutto, sfidava la legittima autorità imperiale romana, che risiedeva a Costantinopoli.

Insomma, il Sacro Romano Impero era innegabilmente molto diverso dall'Impero romano. Dal punto di vista istituzionale si presentava come un network di potentati locali basati sulla fedeltà e garantiti dall'autorità dell'imperatore, non già come uno Stato retto da una complessa burocrazia e da un esercito centralmente organizzato. Ma la differenza più drammatica ed evidente rispetto all'Impero di Roma era sicuramente rappresentata dalle condizioni materiali e dunque da un'economia regredita e frammentata a livello locale, spesso di sussistenza. Ciò si rifletteva chiaramente anche sull'uso della moneta, poco diffusa e sostituita da scambi in natura, visti gli scarsi volumi commerciali, e ridotta per lo più a una funzione di mera e modesta riserva di valore. A testimonianza di ciò sono stati ritrovati, infatti, molti "tesoretti" nascosti. Ma di che tipo di monete si trattava?

Si chiamavano denari, monete d'argento che ricordavano il ben più glorioso denarius romano. Il titolo dei denari, ovvero la percentuale di metallo prezioso in essi contenuta, era di meno della metà e non erano nemmeno particolarmente belli. La scelta dell'argento era dettata dal fatto che la proprietà regia controllava le miniere mentre l'oro era scarso e poco adatto a quel tipo di economia, a causa del suo enorme potere d'acquisto. Se ci si imbatteva in una moneta d'oro, molto probabilmente si trattava di un solidus romano, dunque una moneta estera proveniente dall'impero di Costantinopoli. Ma la caratteristica più curiosa era che il denaro carolingio non aveva moneta divisionale ovvero non erano disponibili sottomultipli. Non c'erano nemmeno tagli più grandi. In pratica, è come se oggi disponessimo solo di monete da un euro, senza pezzi da 50, 20, 10 e 5 centesimi e senza banconote da 5, 10, 20, 50, 100 e 200 euro.

L'assenza di moneta divisionale era probabilmente dovuta alla citata scarsità di transazioni in denaro e anche dal modesto valore della valuta. D'altra parte, tuttavia, l'assenza di multipli rendeva complicate attività comuni come la quantificazione di salari, prezzi, censi, donativi e fitti. Anche quando queste transazioni erano condotte in natura, dovevano avere comunque un valore in moneta e il denaro era una moneta talmente povera che il suo utilizzo come riferimento diventava difficoltoso: le cifre risultavano troppo grandi. Insomma, il denaro si presentava inadeguato a svolgere una delle tre funzioni della moneta, il suo ruolo di unità di conto. Se aggiungiamo che i calcoli erano effettuati in numeri romani dai pochi che sapevano scrivere e far di conto e che non era disponibile lo zero dei numeri indo-arabi, la questione si complicava moltissimo. Gestire grandi cifre in denari era una vera impresa, tanto che si cominciò a contare in unità di peso, le libbre. La libbra romana, corrispondente ai nostri 324,72 grammi, era ancora in uso nei primi secoli (V-VIII sec. d.C.) dell'Alto Medioevo (V-X sec. d.C.). Questa necessità fu recepita da Carlo Magno che, tra il 793 e il 794, dunque ancora in veste di re dei Franchi, promulgò una riforma monetaria. La riforma si pùò schematizzare così:

  • il peso di una libbra d'argento fu incrementato fino a corrispondere a 240 denari;
  • il vecchio nome solidus o soldo andò a indicare non più la moneta aurea romana, ma un'unità di conto corrispondente a 12 denari.

Il sistema monetario carolingio si può così riassumere in questa equivalenza: 1 libbra = 20 soldi = 240 denari, dove l'unica moneta materialmente circolante era il denaro. Con l'uso di questo metodo di conto, la libbra perse parte della sua connotazione di unità di peso e divenne un'unità di tipo monetale, la lira, che Carlo Maria Cipolla definisce "pesante" proprio perché una lira valeva ben 240 denari. Il "peso" della lira sarebbe sceso incessantemente con la progressiva svalutazione del denaro, del quale era un multiplo virtuale, e, dopo l'anno Mille, con la ripresa delle attività commerciali, fu sostituito con monete di maggior valore e prestigio come il Grosso, il Fiorino e il Ducato. Sappiamo poi che la lira ritornerà, in particolare nel nostro paese, come valuta nazionale, a partire dalle riforme introdotte nel periodo napoleonico e dalla successiva unificazione della penisola italiana.

Nonostante la svalutazione, la lira continuò a essere utilizzata come moneta di conto per molto tempo, senza tuttavia mai esistere concretamente come moneta metallica fino alla metà del XVI secolo, dopo più di sette secoli! Si trattava dunque di una moneta "fantasma" che, tuttavia, permetteva ai commercianti europei che utilizzavano valute diverse di concludere una transazione in lire, riconvertendole poi nella moneta locale. In una famosa lettera di cambio del 1410, esposta a Roma durante la mostra L'Avventura della Moneta, tratta dal Fondo Datini e conservata presso l'Archivio di Stato di Prato, ancora si può leggere:

Al nome di Dio, a dì 5 di febrao 1410

Pagate, per questa prima lettera, a dì 16 vista, a Guirardo Catani, libre quatrociento otantatre, soldi dodixi, denari cinque, cioè 1b. 483, s. 12, d, 5 barzelonesi; sono per franchi 617, soldi 7, denari 8 a oro, avuti da noi stesi, a soldi 15 denari 8 per franco. Fatene buon pagamento e ponete a conto di Bartolino di Nicolao Bartolini di Parixi. [4] Cristo vi guardi. Pagate a dì sedici vista.

Antonio di Neve di Monpulieri, salute.

Aciettata, dì 15 febrayo 1409.

Le 483 lire (o libbre) non sono la valuta di Barcellona, ma solo una quantità da riconvertire in moneta di Barcellona.

La lira non fu l'unico esempio di moneta di conto. Ci furono anche monete virtuali e private, create nell'ambito delle cosiddette fiere di cambio, caratterizzate da attività puramente finanziarie e non di scambio merci come quella di Bisenzone, nei pressi di Piacenza, dove si usava il cosiddetto "scudo di marche". I fenomeni monetari, infatti, spesso prendono strade non previste quando il governo della moneta non è esercitato in conformità con le necessità economiche; questo è uno dei motivi per cui oggi la moneta è governata da istituti specializzati come le banche centrali.

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